Formule, il valore del contesto …

Come accennavo nel post sull’argomento, Loredana, studentessa del corso di laurea per tecnici di radiologia, qualche tempo fa ne aveva scritto uno interessante, in particolare per gli studenti del suo corso di laurea, dove aveva inserito un’animazione che illustra il concetto di precessione di uno spin di una particella (trottola che gira) in un campo magnetico statico. I puristi dell’insegnamento storceranno il naso di fronte a mezzi non ortodossi di questo tipo ma io non sono d’accordo. Nessuno discute sul fatto che il linguaggio matematico sia il linguaggio fondamentale delle scienze, anzi, proprio per questo è necessario prendere atto di una realtà incontrovertibile: la scuola non insegna il linguaggio matematico. Bestemmia? Nossignori. So di uno stimato professore di analisi I che agli studenti di matematica del I anno inizia col dire: “Avete fatto matematica al liceo? Bene, dimenticate tutto perché la matematica è un’altra cosa.” Sono perfettamente d’accordo. La montagna di esercizi inflitti agli studenti in otto anni di scuola media ha ben poco a che vedere con l’immaginazione che pervade il pensiero matematico e poco e niente insegna sul linguaggio matematico. C’è poco da fare: gli studenti vivono l’esperienza della matematica e della di fisica al liceo come una montagna di regole da imparare. Chi prende la faccenda come un gioco, forse il 10-20%, va bene a matematica, gli altri persi per sempre. Suggerisco la lettura di The children’s machine, di Seymour Papert. Allora, in tale situazione ben vengano figure ed animazioni che aiutino gli studenti a crearsi delle immagini matematiche in mente.

Tornando al post che dicevamo, Loredana, che è una ragazza scrupolosa, si era presa la briga di scrivere la formula che esprime il suddetto fenomeno. “Brava – le avevo scritto – aggiungi ora però anche una spiegazione dei simboli” cosa che lei ha fatto prontamente risolvendo anche il sotto problemino di usare lettere greche nel post. Bene.

Non è banale leggere una formula matematica, anche la più semplice possibile. Le formule matematiche sono strumenti di espressione potentissimi ed estremamente precisi che però hanno bisogno di una chiara definizione del contesto per poter essere comprese adeguatamente. Esse consentono di dire cose che se fossero espresse con il linguaggio comune diventerebbero complicatissime e molto spesso irrimediabilmente ambigue. Tuttavia, la stessa formula, piazzata in un altro contesto può dire cose molto diverse. Non cose in contrasto fra loro ma che possono avere un altro respiro.

Un esempio?

y=ax^2

Che vi viene in mente? Tutti in coro: “LA PARABOLA!”

Oh bravi! Eccola:

Parabola

Ma perché vi viene in mente la parabola? Probabilmente vi viene in mente per via dell’impiego di simboli usuali ai quali vi hanno abituati quando vi hanno fatto un po’ di geometria analitica a scuola. La geometria analitica, dove geometria ed algebra si sposano potenziandosi a vicenda. Prima di Cartesio, al quale dobbiamo questa idea, guardando questa equazione, potevano venire in mente solo domande algebriche: per esempio, quanto viene la y se so la x? O viceversa. Quello era un contesto algebrico. Dopo Cartesio il contesto si è ampliato e l’equazione può ora evocare quesiti geometrici, tipo: una data retta ed una data parabola hanno intersezioni? Se sì, quante?

Attenzione però. L’interpretazione parabolica di quella formuletta deriva dal fatto che siamo abituati a dare un preciso significato ai simboli ma questo significato rappresenta un bel po’ di informazione in più che noi diamo per scontata e che non lo è affatto.
Riscriviamo la formula cambiando i simboli, così:

E=KD^2

Che vi dice così? Credo niente, a meno che non siate persone che si occupano degli effetti delle radiazioni ionizzanti a basse dosi. Delle radiazioni ionizzanti fanno parte per esempio i raggi X, quelli che si usano nella TAC o per fare le radiografie. Ebbene, questa formula descrive come dipende l’occorrenza di danni subiti da un campione di cellule in seguito all’esposizione alle radiazioni ionizzanti dalla dose di radiazione quando questa è di piccola entità. È una questione di grande rilevanza pratica perché è legata, per esempio, al rischio di contrarre un tumore fra molti anni in seguito ad un’esposizione continua a bassi livelli di radiazione. Conoscere questa relazione consente di stabilire quando si può dire che un’esposizione alle radiazioni è sicura.

Qui il contesto è quello della fisica, che studia le proprietà delle radiazioni, e della radiobiologia, che si occupa degli effetti delle radiazioni sulle cellule. Quando si scende dall’Olimpo dei matematici diventa ancora più importante definire il significato di ciascun simbolo che compare nella formula. In particolare dobbiamo essere in grado di associare ad ogni simbolo la sua unità di misura. Infatti, in fisica esistono solo cose che si possono misurare e le quantità fisiche devono poter essere definite in modo operativo, vale a dire che si deve essere in grado di immaginare un esperimento che consenta di misurarle.

Uno degli aspetti, certo non l’unico, che determinano la qualità di un qualsiasi testo scientifico, consiste nella cura che l’autore pone nel descrivere natura e unità di misura di tutti i simboli che compaiono nelle formule. Diffidate di un testo con le formule buttate dentro senza altre spiegazioni, anche se l’ha scritto o ve lo propone un vostro professore! Per esempio nella formula precedente si potrebbe specificare che E è l’effetto, per esempio il numero di cellule decedute in seguito ad una certa esposizione, D è la dose impartita al campione in Gray (energia depositata, in Joule, per unità di massa, in grammi), K una costante, tipica del sistema studiato, che si esprime in 1/Gray, in modo che KD venga un numero; sempre fare la verifica dimensionale!

Come vedete, le due formule che abbiamo scritto sono uguali, a parte il nome dei simboli, e possono in virtù di questo evocare immagini diverse perché i simboli usati ed il loro significato suggeriscono un contesto diverso.
Possiamo tuttavia andare molto oltre, pur mantendo la stessa identica struttura formale dell’espressione. Attenzione, scriviamo

E=mc^2

Boia che botta! Abbiamo scritto per la terza volta la stessa formula ma è bastato cambiare simboli per ritrovarsi proiettati nella storia della scienza, nella filosofia, in quello strano mondo da Alice nel paese delle meraviglie che è la natura descritta dai fisici del 900, dove accadono cose stupefacenti, per esempio dei sassetti (elettroni e positroni son piccini sì, ma pesano, si sa con precisione quanto pesano, sono materia …) che annichiliscono in un lampo di luce! E non crediate di essere tanto lontani dalla vostra realtà, in particolare coloro di voi che bazzicheranno il mondo della diagnostica per immagini e l’imaging molecolare: la Positron Emission Tomography (PET) funziona grazie al fenomeno di annichilazione dei positroni che producono ciascuno due palline di luce (fotoni) che poi sono quelle rivelate e contate dall’apparecchio!

Ma torniamo ora alla solita formula. La prima versione, y=ax^2, e la seconda, E=KD^2, differivano per i simboli ed il loro diverso significato. Anche la terza versione differisce per i simboli ed il loro significato ma non solo. Qui la lettura differisce anche per il ruolo loro attribuito. Nei primi due casi il fattore a destra, x^2 in un caso e D^2 nell’altro, rappresentano il quadrato di due quantità variabili mentre il fattore a ed il fattore K giocano il ruolo di costanti. Nella terza versione è il fattore c^2 a giocare il ruolo della costante perché è stato proprio uno dei risultati fondamentali della teoria della relatività di Einstein il riconoscimento che la velocità della luce, c (e quindi anche c^2), è una costante dell’universo.

Vedete quindi che la lettura di una formula è tutt’altro che semplice perché il suo significato dipende pesantemente dal contesto: chi scrive deve preoccuparsi di fornire al lettore tutti gli elementi per descriverlo ed il lettore deve darsi il tempo necessario per comprenderlo.

Da questo segue che le formule si devono leggere ad una velocità diversa: ci vuole più tempo perché contengono molta informazione. Diciamo che non si leggono, si guardano come si guarda un’immagine saltando con gli occhi qua e là e si pensa cercando di collegare le sue varie parti al contesto. Ad ogni simbolo deve essere associata un quantità e, se per esempio il contesto è fisico, questa deve essere misurabile. Deve cioè essere possibile associarvi un’unità di misura. La comprensione di una formula in un contesto fisico comporta anche l’esecuzione della verifica dimensionale: vale a dire che bisogna provare a sostituire ad ogni simbolo la sua unità di misura e svolgere il conto algebrico con le unità di misura in modo da verificare che a sinistra e a destra del segno = si trovino le stesse cose, tipo pere=pere. Se viene pere=mele c’è qualcosa che non va!

Per fare un esempio ovvio, prendiamo il secondo principio della dinamica:

F=ma

Fare la verifica dimensionale vuol dire scrivere o pensare

Newton=chilogrammo*\frac{metro}{secondo^2}

dove il Newton è l’unità di misura della forza, il grammo quella della massa, il metro dello spazio e il secondo del tempo.

e poiché l’unità di misura del Newton è definita per l’appunto grammo*\frac{metro}{secondo^2} la verifica torna.

La lettura di una formula è diversa dalla lettura del testo e dipende dal contesto. Abbiamo appena considerato un contesto matematico ed un contesto fisico ma ve ne possono essere altri, in luoghi dove non ci aspetteremmo di trovare una formula. Per esempio recentemente ho letto un post molto interessante scritto da Maria Grazia, amica nella comunità LTEver, sul tema delle comunità che si formano intorno al social networking e sono rimasto molto sorpreso per il fatto che l’autrice del post si sia servita di alcune formule matematiche nelle sue argomentazioni. Per inciso, il post cita la Teoria del Campo dello psicologo Kurt Lewin, con la quale si mette in luce l’importanza della relazione complessa esistente fra organismo e ambiente (in senso generale, non solo fisico, per esempio il gruppo) al fine di comprendere l’organismo, in sintesi se ho ben capito: il valore del contesto. Siamo nel campo della psicologia sociale, credo, e non mi aspettavo di trovare anche qui il linguaggio matematico.

Rimbalzando di risorsa in risorsa mi sono reso conto che nella psicologia sociale si è fatto spesso ricorso al linguaggio matematico. Naturalmente il contesto è ancora diverso rispetto agli esempi precedenti. In un contesto matematico ci si preoccupa delle relazioni che si possono stabilire fra entità astratte. Una stessa formula può essere associata ad entità diverse, come abbiamo visto con l’equazione y=ax^2 che poteva essere collocata sia in un contesto algebrico che in uno geometrico. Contesti diversi ma sempre astratti. L’associazione fra mondi astratti diversi è tipica del ragionamento matematico. È uno strumento potentissimo e forse costituisce l’essenza profonda del pensiero matematico.

Quando invece abbiamo calato la solita espressione in un contesto fisico abbiamo dovuto mettere i piedi per terra, in un certo senso. Siamo stati costretti a dare corporeità alle quantità associate ad ogni simbolo associandovi un’unità di misura. Abbiamo dovuto quindi accettare l’idea che queste quantità fosse misurabili in qualche maniera. Un po’ come rendere mortale un angelo dandogli un corpo.

Ulteriormente diversa è la situazione quando collochiamo un’espressione matematica in un contesto psicologico. Non v’è dubbio alcuno che le entità che albergano nella nostra mente e di cui si occupa la psicologia siano reali, tanto quanto i fenomeni che caratterizzano il mondo fisico; anzi, forse nella nostra esperienza soggettiva sono assai più reali le prime di questi ultimi. Quanto ci interessano gli eventi circostanti quando pensieri tristi gravano sul nostro nostro cuore?

Tuttavia, credo che sia difficile dare corpo alle quantità psicologiche come abbiamo fatto con le quantità fisiche, assegnare loro addirittura delle unità di misura! Una situazione curiosa quindi: da un lato trattiamo di un contesto che descrive percezioni per noi tutt’altro che astratte ma dall’altro dobbiamo immaginare quantità evanescenti. Questo apparente contrasto deriva dal fatto che la psicologia è una scienza che tratta di sistemi complessi. Direi del sistema più complesso che si conosca in natura: la nostra mente. In confronto la fisica si occupa di banalità. E pensare che, nonostante questo, i fisici sono riusciti a malapena a descrivere la struttura dell’atomo di idrogeno, che sembra roba da bambini: un misero protone con un elettrone annuvolato intorno. Figuriamoci quello che succede nella mente!

È evidente che dobbiamo assumere un atteggiamento diverso quando leggiamo una formula in un contesto psicologico, dando valore analogico alle entità matematiche. Per esempio una certa entità o espressione matematica suggerisce un’astrazione che a noi sembra possa attagliarsi alla percezione di un particolare fenomeno psicologico e come tale la utilizziamo. La non misurabilità delle entità psicologiche, almeno nei termini usuali della fisica, impedisce la conferma sperimentale come la si concepisce nelle scienze cosiddette esatte. Quindi la formula matematica usata in un contesto del genere diviene sostanzialmente un tramite per trovare analogie feconde con altri campi dello scibile e non un mezzo che consente la verifica sperimentale.

Con questa piccola escursione nel mondo delle formule spero di avere richiamato l’attenzione su quanto sia importante la percezione della matematica come linguaggio. Purtroppo, la stragrande maggiornanza degli studenti escono dalle scuole superiori con l’idea che la matematica sia un insieme di regole e di procedure. Invece dovrebbero uscire dalla scuola con l’idea che la matematica sia un linguaggio molto potente che aiuta la comunicazione delle idee. Gli elementi di questo linguaggio necessitano di una chiara percezione del contesto affinché siano compresi correttamente. Come succede in un testo qualsiasi: sappiamo bene che una frase estratta dal testo che la conteneva può assumere significati diversi se posta in contesti diversi.

Il fatto che uno studente abbia dovuto affrontare un congruo numero di equivalenze, espressioni, problemi e quiz ha poco a che vedere, credo, con l’acquisizione di un pensiero matematico, veicolo fondamentale delle scienze.

È interessante come grazie al post di Maria Grazia, guidato dalla curiosità, abbia finito con l’imbattermi in risorse che mi confortano molto: le mie perplessità sono infatti confinate ad intuizioni e sensazioni e invece constato che vi è una forte coscienza di questi problemi e che vi sono professionisti e ricercatori che vi si impegnano attivamente.

Concludo citando, a titolo di esempio, da un articolo di Mario Polito, Apprendimento ed insegnamento secondo la Teoria della Gestalt, il seguente passo:

Ad esempio, è impossibile incrementare la motivazione alla matematica se la matematica non gode di valore, di attrattiva nella mente o nello spazio vitale di un allievo e se la relazione dell’allievo con l’insegnante di matematica è pessima. In questo caso un obiettivo della didattica della matematica è quello di far emergere, all’interno del campo dell’esperienza dello scolaro, la desiderabilità della matematica. Solo a questo punto nasce il piacere di risolvere esercizi di matematica.

Questo è ossigeno …

8 pensieri riguardo “Formule, il valore del contesto …”

  1. Anch’io condivido tutto ciò che iamarf ha detto e trovo bellissimo il raffronto tra le tre formule.
    Inoltre ricordo che anche il mio prof. di matematica all’università guardava di cattivo occhio chi, provenendo dal liceo scientifico, aveva già una buona conoscenza del programma d’esame (a suo dire, aveva con la materia un approccio sbagliato). Incredibile ma vero, del mio gruppo, con una sola eccezione, chi aveva frequentato lo scientifico riportò un voto inferiore già allo scritto, tanto da dover rimandare l’esame alla sessione successiva.

  2. Certo la metematica non è gergo, ma vita. C’è più matematica nel guscio di una chiocciola o in Piero della Francesca che paradossalmente nella manualistica teorica di Analisi I o II.
    L’algebra non è conosciuta come altri linguaggi pur avendo un millennio di vita proprio a causa dell’eccesso di astrazione con cui viene insegnata.

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